Domenica 6 Ottobre a Villa Ida l’Associazione TeS ha avuto il piacere di presentare al pubblico trezzanese il giornalista e scrittore Luigi Barnaba Frigoli, autore del romanzo storico “La Vipera e il Diavolo”, in cui è narrato lo scontro tra Bernabò Visconti e il nipote Gian Galeazzo nella Lombardia del Trecento, in un suggestivo viaggio nel tempo nel quale si intrecciano storia, leggenda e mistero.

Per gentile concessione della casa editrice Meravigli riportiamo qui una delle leggende che vengono narrate nel libro come “storie nella storia”. Il racconto si riferisce alla figura di Bernabò Visconti, personaggio storico conosciuto nel nostro territorio in quanto fu Signore del vicino Castello di Trezzo, luogo in cui il Diavolo Bernabò trovò la morte nel 1385.

Bernabò e gli emissari del papa.

Era la fine degli anni Sessanta del XIV secolo. Il papa stava organizzando il ritorno della corte pontificia a Roma, dopo decenni di esilio avignonese. Per raggiungere il soglio di San Pietro, Sua santità avrebbe dovuto necessariamente passare attraverso i domini di Bernabò Visconti, signore di Milano, vicario dell’imperatore e padrone di Lombardia, lo spietato anticristo che il Demonio aveva mandato in terra per perseguitare re, città, contadini, preti, nobili e plebei. Per il popolo era il Diavolo. E, come nessuno, si avvaleva delle truppe dei più spietati ed eretici condottieri mercenari. Con due di essi il Visconti era persino imparentato: Giovanni Acuto, al secolo John Hawkwood, marito della sua figlia bastarda Donnina, partorita da quella cortigiana senza scrupoli di Montanina de Lazzari. E Ambrogio, altro suo figlioccio, generale prezzolato sanguinario e crudele quasi quanto il padre. Bernabò si serviva di loro per colpire i suoi nemici in maniera ufficiale e non. Drappelli di senzadio che non cavalcavano sotto l’egida milanese, ma che per conto della Biscia erano soliti agire impunemente. E non avrebbero avuto rispetto e deferenza nemmeno per il vicario d’Iddio sulla terra. Il papa scelse quindi l’arma più potente che aveva a disposizione per assicurarsi un viaggio tranquillo. In nome di Cristo e della pace, Sua santità ordinò a tutti i potenti italiani di licenziare i generali alla loro mercé, pena la scomunica. Bernabò ovviamente fece orecchie da mercante. Anzi. Scatenò al saccheggio Ambrogio e l’Acuto come e più di prima, con particolare attenzione a conventi e abbazie.
L’anatema papale non si fece attendere. Un caldissimo pomeriggio di fine agosto, due uomini varcarono al galoppo il ponte levatoio del castello di Melegnano, una delle residenze favorite di Bernabò. Non erano cavalieri, bensì chierici d’alto rango. «Dite a messere che il cardinal di Belforte e l’abate Farfa chiedono la grazia di essere ricevuti. Con noi rechiamo un messaggio da parte di Sua santità il pontefice», annunciarono alle sentinelle. «Nostro signore Bernabò è andato a caccia e non rientrerà prima del tramonto» fu la pronta risposta del fido armigero in garitta, che non si scompose né si agitò, manco fosse di fronte ai garzoni di Ceppi il pesciaio. Il porporato e il suo compagno dovettero attendere ore davanti all’entrata del maniero, senza che nessuno si premurasse di offrir riparo e ristoro né a loro né ai loro cavalli. Solo sul finir del giorno il piantone, freddo e indifferente, li condusse alla presenza del Visconti. Lo trovarono seduto a tavola, davanti a vassoi colmi di selvaggina fumante, caraffe d’acqua fresca e vino genuino. «Le vostre eminenze perdonino tanta attesa» li riverì messere «ma fagiani e pernici si son fatti più scaltri d’un tempo e per accopparli una mattinata oramai non basta più. Orsù, monsignori, ditemi, in che cosa quest’umile servo timorato di Cristo può esser utile a Sua santità?». Il cardinal Belforte porse al sovrano un foglio di cartapecora, ripiegato e sigillato in ceralacca: la scomunica di Urbano V per non aver ottemperato all’ordine di sciogliere le compagnie mercenarie, ennesima di una lunga serie di provocatorie disobbedienze e blasfeme offese nei confronti del papa e del clero. Bernabò aprì la bolla cerata sigillata in piombo e lesse attentamente. Il latino, per lui, avvezzo a condurre personalmente gli affari di Stato, a trattare con i più titolati notabili d’Europa e che in gioventù si era dedicato a studi giurisprudenziali, non era affatto un problema. Rimase a lungo, messere, con lo sguardo fisso sul documento con cui si sanciva, e non era la prima volta, l’interdizione sua, della sua famiglia e dei suoi sudditi, dai sacramenti e l’espulsione sine die dalla comunità cristiana. Milanesi: nemici del papa, nemici di Dio. Cominciò a ridere, ridere, ridere. Una sonora sghignazzata, degna di Belzebù, che mise i brividi ai due chierici in piedi di fronte a lui seduto, stanchi e spossati dal viaggio, dal caldo e dall’interminabile attesa.
Seguì il silenzio. Poi Bernabò batté le mani e nella stanza entrò un servo. Messere lo chiamò a sé e gli sussurrò qualcosa all’orecchio. E quello prese la bolla e il sigillo piombato e scomparve donde era venuto. Bernabò squadrò cardinale e abate con un ghigno malefico e li fece accomodare a tavola accanto a sé. «Le signorie vostre saranno affaticate. Vogliono dunque mangiare o bere per rifocillarsi?» domandò.
Belforte e Farfa si guardarono con aria interrogativa. Poi cedettero: «Un boccone sarebbe invero benedetto e così dell’acqua fresca» rispose l’abate, interpretando il pensiero di entrambi. Il sovrano ridacchiò nuovamente e nuovamente batté le mani. Il servo tornò nel salone, questa volta recando con sé un vassoio incoperchiato, che adagiò davanti ai due viaggiatori. «Prego, monsignori, servitevi pure, senza fare complimenti». Farfa sollevò il coperchio del vassoio e con stupore misto a disperazione vide, circondati da foglie di lattuga, i brandelli della bolla papale, sormontati dal sigillo in piombo e ceralacca. «Questo è un oltraggio!» azzardò balbettando Belforte. «Questo è un invito» ribadì Bernabò sguainando la spada.
Ai due poveri preti non restò altro da fare che ingollare, a capo chino e senza fiatare, l’indigesto e duro pasto. Quand’ebbero terminato, Bernabò si portò due dita alla bocca ed emise un fischio secco. Entrarono, oltre al servo, anche due armigeri. «Tonio, da bravo sparecchia, i signori hanno finito. E hanno fretta di congedarsi, per tornare a dar risposta al loro santo padrone. Non prima di aver bevuto per mandare giù il boccone. Guardie, prendeteli dunque sottobraccio» ordinò «affinché io personalmente conduca gli illustri legati del pontefice Urbano a dissetarsi». Gli armigeri eseguirono e Bernabò si mise alla testa del gruppetto, camminando dinoccolato fino al ponte levatoio. Superato il quale fece un cenno del capo ai suoi che precipitarono cardinale e abate nelle acque del fiume Lambro. Era ormai notte. «Troverete i vostri cavalli a riva, eminenze, loro sì, povere bestie, rifocillate a dovere» gridò il sovrano, mentre quelli si dimenavano affannosamente per restare a galla. «Spero che il banchetto sia stato di vostro gradimento. Portate i miei ossequi al Santo padre». Detto questo, ancora un ghigno soddisfatto sulle labbra, messere girò i tacchi e, seguito dalle guardie, fece ritorno alle sue pernici. Di certo non udendo il cardinale di Belforte che, annaspando verso la sponda, mormorava: «Per tutto questo alla fine Dio ti distruggerà, e strapperà te e le tue radici dalla terra dei viventi, maledetto demonio».

Da La Vipera e il Diavolo di Luigi Barnaba Frigoli, Meravigli edizioni

Per conoscere altri particolari della Storia dei Visconti l’associazione TeS conta di organizzare prossimamente  una visita guidata a luoghi viscontei del territorio. Vi terremo informati.

            

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